sabato 16 settembre 2017

Apologia di reato

Nel caso in esame, ad un soggetto si contestava la commissione del reato di “Istigazione a delinquere”, per aver egli pubblicato sul social network, profilo personale Facebook, materiale «apologetico dell’associazione terroristica denominata Isis», noto al grande pubblico anche come “stato islamico”. Il reato contestato, rubricato all'articolo 414 del Codice penale, tra l’altro stabilisce che: «Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione […] con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti […] Alla pena stabilita […] soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. La pena prevista […] è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici […] se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici». In effetti, il materiale pubblicato sulla piattaforma Facebook si contraddistingueva per la sua «matrice islamica radicale e, tra l’altro, comprendeva […] una fotografia con commento dell’imam […] già arrestato dalla polizia […] per avere reclutato soggetti affiliati all'Isis […] alcune videoregistrazioni inneggianti al martirio religioso jihadista, che riprendevano immagini di individui armati e vestiti con abiti militari mimetici […] la condivisione di lunghi brani di discorsi di autorità religiose, appartenenti all'area islamica radicale, che esaltavano l’adesione di singoli combattenti al califfato […] e la loro morte in qualità di martiri jihadisti […] materiale di provenienza telematica eterogenea mirante a propagandare l’ideologia e le attività dello stesso sodalizio terroristico, sia sul piano politico che su quello religioso». Nonché, a seguito di ulteriori indagini, veniva sequestrato al soggetto tutta una serie di altro materiale propagandistico di eguale portata rispetto a quello già pubblicato sul social network. Ebbene, nonostante tale quadro fortemente indiziante, il giudice del riesame al quale si era rivolta la difesa del soggetto indagato non riteneva fondato il reato di apologia poiché, ad avviso del giudicante, parte del materiale pubblicato: «pur riguardando il conflitto bellico in corso di svolgimento sull'area geografica siro-irachena, non contenevano alcun riferimento esplicito allo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria e alla matrice islamica radicale che ispirava le sue azioni, limitandosi a diffondere informazioni sull'interpretazione coranica del ruolo di combattenti svolto dagli adepti di fede musulmana che fornivano il loro sostegno al conflitto in questione». Analogamente riguardo ad altro materiale, poiché lo stesso faceva: «esplicitamente riferimento all'Isis, ma su un piano esclusivamente istituzionale e religioso, riguardante la legittimazione che lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria avrebbe sotto il profilo del riconoscimento internazionale; profilo, quest’ultimo, a sua volta collegato ad una più ampia piattaforma dogmatica, finalizzata a giustificare sul piano teologico la presenza di tale organismo sulla scena internazionale, a prescindere dai richiami alla matrice jihadista dei suoi proclami». Queste in sostanza le considerazioni che hanno indotto il giudice del riesame ad affermare che la sussistenza del delitto contestato: «non poteva discendere da un giudizio complessivo sulle sue posizioni religiose, rispetto alle quali non era possibile esprimere alcuna valutazione negativa, riguardando il credo islamico dell’indagato la sua sfera privata». La conseguenza è stata quella dell’annullamento del provvedimento cautelare in capo al ricorrente con l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa. Alla luce di quanto esposto, ricorreva per cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo tutta una serie di vizi motivazionali del provvedimento impugnato, che qui ometto di citare. Mentre ciò che interessa il presente contributo è il ragionamento fatto dai giudici di legittimità che hanno accolto, almeno in parte, il ricorso della procura. Infatti, affinché si configuri il reato apologico è necessario che le conversazioni, anche per via telematica, quindi l’ambito conoscitivo delle stesse non resti circoscritto al «solo ricorrente, ovvero all'interlocuzione individuale con altro soggetto». Ne consegue, che ai fini della configurazione del reato contestato: «non rileva la tipologia dei reati in relazione ai quali si esplica l’attività comunicativa, ma le modalità con cui la comunicazione viene esternata, che devono possedere connotazioni di potenzialità diffusiva, conseguenti al fatto di essere destinate a un numero indeterminato di soggetti». E richiamando precedenti decisioni, concludono i giudici: «Integra il reato di apologia di uno o più delitti […] la diffusione di un documento di contenuto apologetico mediante il suo inserimento su un sito internet privo di vincoli di accesso, in quanto tale modalità ha una potenzialità diffusiva indefinita» (cfr. Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, Sentenza n. 24103/17, decisa il 4 aprile 2017).

domenica 3 settembre 2017

Omicidio Dalla Chiesa

Il Fatto Quotidiano: «Sono passati 35 anni da quando Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ucciso dalla mafia insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di polizia Domenico Russo. Oggi, 3 settembre, Palermo ricorda l’eccidio di via Isidoro Carini. Erano le 21:15 del 3 settembre 1982, quando in questa strada la macchina su cui viaggiavano il prefetto e la moglie è stata affiancata da una Bmw dalla quale sono partiti 30 colpi di ak-47. Subito dopo, l’auto di scorta è stata presa di mira da un commando in motocicletta che ha scaricato sull'agente e sull'autista una serie di colpi di mitra. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la commemorazione ha deposto una corona di alloro sotto la lapide che ricorda l’eccidio. La sua morte non è stata inutile” afferma la presidente della commissione antimafia Rosy Bindi. “Oggi ricordiamo un servitore dello Stato. Il prefetto Dalla Chiesa fu ucciso in quanto rappresentava un pericolo reale per la mafia e, non va dimenticato, anche perché fu lasciato solo. Per l’omicidio di Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, su cui ancora si aggiungono dettagli a distanza di 35 anni, sono stati condannati all'ergastolo, come mandanti, i vertici di Cosa nostra dell’epoca: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 è arrivata la condanna anche per gli esecutori: Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci». Nella sentenza si legge: Continua a leggere →